È mattino, apriamo gli occhi e sintonizziamo la nostra vita sulla solita frequenza radio. Quella che conosciamo da anni e che ormai rappresenta un nostro punto di riferimento. Quello che da un lato ci indottrina e da un lato ci aliena. Dispensatrice da sempre di cultura. Cultura appresa dalle parole di un uomo che verbalizza dissezioni anatomiche di guerre, omicidi e ingiustizie. Io la definisco la cultura dell’appartenenza.
La cultura dell’appartenenza. I meandri di queste diatribe ci fanno appartenere a un mondo tetro del quale siamo vittime. Vittime di complotti, vittime del sistema, vittime degli attentati. Dunque, il primo colore che osserviamo al mattino è quello grigio. Un grigiume che appiattisce ed omologa le nostre sensazioni.
Questa visione ci permette di scegliere soltanto un’alternativa. Appartenere o non appartenere a questo sistema? Appartenere al male o appartenere al bene? Appartenere al giusto o appartenere allo sbagliato? Ci barcameniamo in questa mesta nebulosità procedendo per tentativi, sentendoci appropriati e disadattati, o adattati ed espropriati.
Nelle antiche tribù chi non seguiva le regole veniva escluso. Chi veniva escluso da una tribù era abbandonato a se stesso ed aveva scarse probabilità di sopravvivenza. Oggi noi tanto edotti e acculturati distiamo poco da questo procedimento, e la nostra paura, ahimè, è proprio quella di essere esclusi.
Cominciamo da piccoli. Pur di appartenere al nucleo familiare ci adattiamo alle aspettative del “sistema famiglia”. Continuiamo da grandi, osservando il mondo esprimendo un giudizio. Un giudizio, analiticamente e oggettivamente validato dal senso di appartenenza più forte, dalla tribù più autorevole. Tanto per fare un esempio, dal processo scientifico o dalla schiera dei complottisti.
Da piccoli a grandi la sostanza non cambia, così come non cambia la frequenza radio. C’è chi grida: “spegniamo la televisione”, “limitiamo i media”, “tuteliamo la privacy”, “l’aquarius deve attraccare”. Queste urla non sono altro che la rappresentazione delle nostre paure o dei nostri desideri, e per quanto possano essere discordanti o paradossali tra di esse, ci appartengono.
È questa visione della cultura d’appartenenza che sto scoprendo. Non la sto scoprendo tramite la lettura. Nemmeno una biblioteca intera potrebbe aiutarmi a comprendere quello che la vita stessa mi insegna quotidianamente.
Quando ero adolescente mi sono ribellato ai telegiornali perché credevo raccontassero soltanto la verità che piaceva a loro. Crescendo e studiando ho capito che per il cervello non c’è differenza tra le cose che sogna e quelle che pensa. Tra le cose che pensa e quelle che vive realmente. Allora avevo capito che era giusto spegnere il telegiornale per tutelarmi dal plagio aggressivo mediatico.
Ma la scoperta di questo nuovo senso di appartenenza mi ha permesso di capire che ho sempre la facoltà di cambiare frequenza. Scegliere la mia frequenza significa inglobare dentro di me frammenti di realtà sempre nuovi e diversi. Significa, infine, accettare e includere nuove e diverse parti di me.
Bibliografia e riferimenti
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